lunedì 31 dicembre 2007

acufene

Non si tratta della perdita del silenzio, del "sollievo" momentaneo di non sentire rumori, dato che una condizione di assenza totale di suoni dal mondo non si dà neanche quando non si soffre di questo disturbo. All'acufene la mente si adatta e il fastidio, quando il cervello si focalizza sulle vicende di tutti i giorni, quasi non si avverte.

Il punto è che il rumore - sibilo o sonorità di fondo, vibrazione bassa o acuta che sia -, che si sente quando si soffre di acufene, non proviene "dall'esterno" ma "dall'interno" del cervello. E' come se qualcosa nel sistema nervoso centrale sfuggisse al controllo e qualche neurone si mettesse a funzionare per conto suo invece di aspettare gli stimoli esterni.

Quel rumore è causato dalla prorpia interiorità e a nulla serve tapparsi le orecchie, come si fa quando ci si vuole proteggere da un rumore troppo acuto. Siamo noi, è il nostro cervello che produce il suono acuto. Simbolicamente, è come la perdita di una incontaminazione primaria della mente, una innocenza acustica che non c'è più. E' in questa perdita di una libertà di base, di una possibiliità, come un pittore che non disponesse più di un colore, che ci si sente.

La sottile sofferenza dell'acufene sta nel dover sentire per aggiunzione (di suoni che si sovrappongono ad altri suoni ed eliminano quelli non scelti) più che per sottrazione (di quelli indesiderati, in favore di quelli che si vuole sentire).

venerdì 28 dicembre 2007

derive

Uscire dal lavoro e aspettare l'autobus un'ora, al gelo del marciapiede. Stare lì e chiedersi perché - oltre l'automatica rabbia per il disastro romano dei servizi pubblici - questo sentimento s-collima col pensare inteso come discredere. Sa troppo di stereotipo, di prevedibile. Lambisce la confortevolezza dell'esistere, la sua amministrazione, non entra nel merito ultimo (o primo) dell'essere delle cose. Come lamentarsi dei pomelli d'ottone non lucidati di una nave alla deriva. La "deriva" del nostro esistere, rispetto al poca cosa della deriva del nostro tragitto per tornare a casa, mi dico. E prendo l'autobus tutto infreddolito, con sguardo basso, senza protestare con il conducente.

venerdì 21 dicembre 2007

giovedì 20 dicembre 2007

contemplare, masticare

Il barocco che vedo entrando in S. Andrea della Valle durante la pausa pranzo, è nel sontuoso gioco di masse, luci e volumi che assale all’inizio della navata. Dice in ogni punto di una fastosa glorificazione – risuona come un continuo ad majorem dei gloriam. E' certo per questa ragione che la luce, riflettendosi sugli ori delle decorazioni, appare abbagliante, in quest’ora meridiana.

Non sono io che cerco di capire il significato della formula barocca “impressionare, convincere, persuadere” affidato alle forme, ai marmi e agli affreschi della basilica. Sono loro che mi accolgono e mi invadono quando entro.

Mi siedo per osservare l’abside. La teatralità dei dipinti di Mattia Preti sul martirio di S. Andrea, non sembra disturbata dal disordine provocato dal brusìo e dai flash dei turisti.

Mi godo e mi abbandono allo spettacolo non toccato dal pensiero che l’hanno allestito artisti al soldo di qualche Papa o Cardinale controriformista. La Gloria del Paradiso del Domenichino sulla volta della cupola mi assorbe incantato con la testa all’in su, in un giro su me stesso che mi fa quasi barcollare.

Fuori, nella piazza adiacente, sento il clamore di una manifestazione che si svolge contro il carovita. Dentro, dentro di me, il dipinto celestiale. Fuori, le rivendicazioni contrattuali. Dentro, lo spazio extra ordinem di una celebrazione. Mi faccio prendere dall’emozione e metto da parte il panino che stavo mangiando. La masticazione disturba la contemplazione.

mercoledì 19 dicembre 2007

figlio che legge

Ieri sera ho dato il bacio della buonanotte a mio figlio mentre leggeva. Era la prima volta che lo vedevo così assorto, rinserrato sotto la coperta del letto e concentrato sulla pagina illuminata dal faretto della mensola. Aver sperato or sono 16 o 17 anni fa, ancora prima che nascesse, che avvenisse qualcosa che ora al culmine dell'adolescenza vedevo compiersi davvero, mi ha fatto una certa impressione. Certo, la lettura di un libro come buca in cui si cade (G. Bataille) o come l'ascia che spezza in due l'anima (Kafka). Ma non era questo. Non si trattava di una lettura ardente e spasmodica. Il fatto è che mio figlio leggeva come fosse una cosa ordinaria, non per prendere sonno, ma in vigile attesa di qualcosa che avveniva lì sotto i suoi occhi, tra le mani. Come fosse un fatto normale, un' "abitudine" acquisita. E questo mi bastava per ritenermi soddisfatto di vederlo crescere bene. Cosa speriamo noi padri, sperando che i nostri figli vengano su come noi crediamo sia il meglio per loro (per noi)? Cos'è che ha reso il mio sguardo così languidamente rassicurato perché mio figlio leggeva? C'ho pensato un po' su prima di andare a dormire. Cerebrale come sono, Hegel mi è venuto in soccorso: la conoscenza, come rimedio alla malattia che essa stessa è. Sì, me ne sono convinto, era questo che mi rassicurava, mentre mio figlio leggeva il suo libro sotto la luce del faretto. Grazie Hegel.

inizio giornata

Questa mattina, cosmogonie nate e collassate nel breve sorso di un cappuccino.

martedì 18 dicembre 2007

la brezza delle cose

Saturno non cancella sogni e realtà. Si tratta di vivere con le cose che ti vengono incontro per come ti vengono incontro, con realismo ma anche con ispirazione. Giacché dove c'è lo stipite, lì c'è anche la brezza. E quando arriva l'epilogo, c'è anche l'esordio. Ma spesso si resta fermi, dilaniati tra responsabilità e jouissance. Quale dio ci costringe a non essere saggi?

lunedì 17 dicembre 2007

la mattina, un che di metafisico

Il traghetto che sobbalza e caracolla in un frastuono di ferraglia e di sedili, mi porta per le strade di Roma. Da Prati al Lungotevere, da Piazza Augusto Imperatore a via del Corso, fino a Piazza Venezia. Finisce la corsa e poi mi scarica. Buio pesto, alba, aurora o chiarore mattutino, accompagnano il mio trasbordo da una condizione dell’essere ad un altra, secondo il succedersi delle stagioni. E’ il sacrificio del dover “morire alla vita” per trasformarla in forza lavoro, che avviene ogni giorno. Nello scandirsi dei ritmi stagionali osservati dal finestrino lungo il tragitto, mi sento partecipe, nel mio piccolo, di qualcosa di ancestrale e fatale che si ripete con assiduità. Questa Sconosciuta Realtà, sotto forma di Mezzo Pubblico, mi guida e mi accompagna nel passaggio rituale dall’Io alla Società. Mi aspetta al capolinea per trasmutarmi la coscienza durante il breve viaggio e ogni volta so che scenderò diverso da come sono salito. Dopo lo sciabordìo trasognato, con gli occhi pencolanti di qua e di là su qualche pagina di libro o a guardare le strade deserte della città, vengo consegnato all’approdo previsto. Ma prima, un che di metafisico, come la bruma di un limite oscuro, dispone della mia assonnata interiorità trascinata all’appuntamento di lavoro. So che non il Mondo ma il mio Io Diverso comincia anche oggi dal selciato dell’ultima fermata. Da lì, durerà tutto il giorno.

venerdì 14 dicembre 2007

discredere

Pensare è discredere. Discredere è revocare in dubbio ogni pensiero, ogni azione, ogni condizione, giacché in ogni pensiero, in ogni azione, in ogni condizione c'è l'mpermanente. Che questo impermanente sia, è il compito più arduo a cui è chiamato il pensiero che discrede e tuttavia l'unico spazio in cui può vivere davvero.

martedì 11 dicembre 2007

alleggerito dall'astio

Più vado avanti e più vedo intorno a me solo due razze d'uomini. Quelli relativamente in salute. Quelli in mala-salute. Vedo via via biforcarsi e disporsi in bell'ordine, a partire da questa tassonomia duale, tutti i prodotti della cultura e della civiltà, le manifestazioni più esaltanti e le azioni più meschine del genere umano. Si potrà mai capire - mi chiedo - quanto salute e mala-salute possano condizionare il normale statuto dello spirito e della mente, nel senso materialistico della marxiana condizione che precede la coscienza? Con riguardo alla genesi, alla metamorfosi ed alla loro eventuale decomposizione, uno stato malfermo di salute mi sembra infatti fatale per una normale produzione di azioni o di idee. E proattivo di ogni condizione spirituale costipata, congestionata, nero-incupita. I cronicismi poi - misconosciuto stadio terminale di ogni comune malattia - mi appaiono come la dimensione assoluta di un nesso causale così nefasto. Di questa verità, rimugino una metafisica convinzione, partorita e cresciuta via via direttamente dentro le mucose dei miei setti nasali e tra i bacilli della faringe, prima che nelle categorie della mia mente. Faccio i conti ogni giorno, tra le pieghe di pur miti riflessioni, con ulcerose invettive contro medici e terapie, farmaci e ambulatori. Eppure dalla tassonomia delle due razze non credo di poter cavare enunciati di conoscenza migliori o diversi da quelli pronunciati da altri prima di me che si chiamavano Leopardi, Stirner o Cioran. Nondimeno, solo con la dualità delle razze - pensiero malato corrispondente a condizione malata - riesco a sentirmi meglio e meno sopraffatto dal peso della condizione "insana". Quando, per strada, imbacuccato e alla mercé di un vento livido e crudele, mi viene da tossire, penso alla salute degli altri. A loro, "razza superiore" di uomini produttivi e in buona salute, io ometto malaticcio ma alleggerito dall'astio.

giovedì 6 dicembre 2007

piangere

Non sapevo fosse così facile piangere. Intendo proprio a dirotto, con lacrime che scorrono fluenti e irrefrenabili. Non credo per eccesso di presunzione egoica o per un non confessato maschilismo, ma ho pianto poco nella vita. Certo l'amore, un lutto familiare, una atroce sofferenza altrui. Devo dire che la lettura di antropologi e filosofi alla ricerca del significato delle esperienze + insondabili dell'uomo come il riso e le lacrime, mi ha avvicinato a queste esperienze come ad esperienze "curiosamente" umane. Rare risate di gusto - ammetto la mia seriosa grevità - e poche e stentate lacrime, nella mia vita. Pensavo che a queste poche occasioni si limitasse il mio coinvolgimento e lì finissse. Erano stati più singhiozzi, in verità, che gocce versate. Per questo mai avrei pensato che fosse così facile piangere, meno che mai sul posto di lavoro, davanti ai miei colleghi. Eppure l'ho fatto per la notizia di un rovescio (sfortuna) della mia carriera professionale, non dipendente da me. Quando accadono cose così, nel limite del proprio ego, si pensa di essere soli di fronte al colpo, soli nel tu per tu con le avversità, sotto i "segni" del Destino. Proprio a me? e perché? che male ho fatto? - ti chiedi e come denudato, continui a piangere bagnando le guance senza vergogna.

martedì 4 dicembre 2007

incarico

Conto i giorni d'attesa al mio incarico dirigenziale. Aspetto dall'ottobre 2004. Ora, sembra fatta. Firma del Capo dello Stato, registrazione Corte di Conti, contratto, incarico. Nell'intanto mi sento dire: "L'uomo giusto al posto giusto". Un comunicatore, un servizio di comunicazione. Bene, finalmente - dico - forse vale per me. No, macché. Piano, contropiano, dissolvenza. The end. Il film è finito. Servizio di comunicazione, dove sei? Lascia stare, non mi aspettare. Vado a occuparmi di contratti pubblici :(

comunicazione d'immagine

Mi chiede: "Cosa farebbe Lei per valorizzare l'immagine dell'ente, per renderlo maggiormente credibile agli occhi del suo target?". So che non si comunica l'immagine, ma l'identità. E' che bisogna guardarsi dentro - mi dico - in ciò che costituisce l'essere dell'ente (organizzazione), prima di orientarsi al di "fuori" dell'immagine. Ma guardarsi dentro costa di +. Agli individui come alle organizzazioni. Allora - penso - si finisce per slittare sul fuori di sè, sul fare + economico. Ecco l'effetto di "vuoto", di rigonfiamento, di orpello ornamentale che prende allo stomaco chi vuol stare dentro la comunicazione alle persone e si ritrova a stare dentro il marketing d'immagine - rifletto. Per questo, da quando faccio il comunicatore pubblico, mi ritrovo a soffrire così spesso di ubbìa iconoclasta - concludo.

comunicazione, tutto

"La comunicazione comincia dovunque, media tutti i rapporti umani [..] non ha fine". Potrei adottare questa frase autologa di A. Wilden come emblema del mio integralismo comunicativo. Non riuscirò a ripeterla mai troppo per far capire che la comunicazione non è mai abbastanza considerata e troppo spesso misconosciuta. Massime, sul lavoro, dove tutte le forme di relazione tra gli uomini, le prerogative e livelli di status, pare valgano solo e sempre al netto dei poteri simbolici che i processi di comunicazione inevitabilmente comportano. Purtroppo, come la comunicazione, la lotta per rendere più consapevoli della comunicazione, anche se non comincia dovunque, "non ha mai fine".

sutra del Diamante

Leggete il Sutra del Diamante. Poi ne parliamo.

per capire

Apro questo blog dal di dentro di un pensiero che non posso esprimere. Perciò, consultare il libro sulle "Dieci ragioni (possibili) della tristezza del pensiero" di George Steiner, Milano 2007, Garzanti. Ma anche la critica al suo idealismo.