Ho generato, colpevolmente. Per una vita, ho cercato di rigenerarmi, per guarire dalla nascita, ma non sono rinato. Senza requie, mi sento malnato, da chi ha generato, colpevolmente.
domenica 23 febbraio 2025
lunedì 10 febbraio 2025
Antinatalismo gentile
Ad essere sinceri cristiani, si prova un certo imbarazzo a leggere alcune pagine dei Padri della Chiesa che parlano dell'uomo che, come si dice nel Genesi, è stato creato “ad immagine e somiglianza di Dio”. Quelle di un Arnobio di Sicca, di un Agostino, di un Lotario (Papa Innocenzo III), per esempio. Lo spregio per l'uomo e il mondo è massimo. Fino all'invettiva e alla maledizione oltraggiosa. Non che imprecazioni contro l'umanità peccatrice, manchino nell'Antico Testamento o nei libelli delle sette ereticali. Fra quelli cristiani, uno degli esercizi di spregio più misurati, per dir così, è contenuto nel passo che troviamo in Agostino (o forse Bernardo di Chiaravalle): "Inter faeces et urinam nascimur" (nasciamo tra le feci e l'urina, casomai fosse necessaria la traduzione). Questa veemenza nel dileggio dell'uomo, naturalmente, si spiega il più delle volte con la correlata affermazione della grandiosità della grazia divina che, più è spregevole l'oggetto su cui si posa, più salvifico appare il valore del suo intervento. Fatta questa premessa, stupiscono alquanto l'understatement argomentativo e il nitore stilistico del recente studio ampio e sistematico sull'Antinatalismo di Sarah Dierna dell'Università di Catania, uscito presso l'editore Mimesis col titolo "E' il nascere che non ci voleva". Leggo le 358 pagine e non trovo, contro la pur combattuta etica procreativa, una parola o locuzione men che affabile o scientificamente sorvegliata, contro l'uomo che vuole generare. Lo sottolinea, d'altra parte Alberto Giovanni Biuso, che nella prefazione al lavoro parla, a ragione, di uno studio sull'Antinatalismo, "sine ira et studio". Qui probabilmente l'onesta segnalazione è per via di un certo consapevole anticonformismo, anche accademico, nell'affrontare il tema e nel propugnare la scelta di non mettere al mondo un essere umano (soprattutto in un’epoca di crisi della natalità, come si sa, vieppiù deprecata nel mainstream imperante). A me, confesso, sono bastati questi pochi non comuni stilemi dell'opera, per indurmi alla sua convinta e appassionata lettura. Se non fosse anche per le potenti ragioni teoretiche, prima ancora che etiche ed ecocentriche (nel senso dell'Ecologia profonda), che innervano il discorso sull'Antinatalismo. Il riferimento dell'ultimo capitolo alla Gelassenheit heideggeriana, poi, non fa che confermare la mia idea di understatement non solo discorsivo dell'opera, ma soprattutto filosofico. Di fronte al problema del vivere e dello stare al mondo, nel contesto di un universo caotico e abiotico, non si può che assumere la postura del "lasciar-essere", sembra dirci la Dierna, nella risonanza teoretica dell'ultimo Heidegger. Id est, a mio modesto avviso, una laica propensione di sereno abbandono al niente del nostro esserci, nel niente del ciclo cosmico. E si potrebbe anche dire, riprendendo le ultime frasi dello studio, che Gelassenheit è anche l’atteggiamento del "lasciar-non-essere" chi al mondo non è ancora venuto. Per l'insolita e garbata gentilezza del proposito antinatalista, ci piace pensare che chi non è ancora, possa essere, per così dire, riconoscente all'uomo - se l'invito gentile antinatalista viene messo in pratica - per non averlo costretto ad essere, dovendo annichilire, poi, al momento dell'esecuzione della condanna a morte, conseguente al suo nascere.
mercoledì 5 febbraio 2025
La sublime venatura nera
Fig. 1) Volto del Cristo Portacroce dei Giustiniani (prima versione) presso Bassano Romano. |
Se non fossimo schiantati dal suo sorriso estatico e sublime, potremmo dire che è una perfetta metafora della vita. Di fronte alla venatura nera sul volto e sul collo della prima versione del Cristo Portacroce di Michelangelo, chiamato Cristo dei Giustiniani e collocato nel Convento di San Vincenzo di Bassano Romano (Fig. 1), anche un maestro zen, invece di far roteare un bastone per provocare il satori, si sarebbe accorto che l'allievo può illuminarsi, solo osservandolo. Si potrebbe immaginare che, Michelangelo, prima di regalarlo al suo committente, Metello Vari, nel 1516, quella venatura nera, la indicasse lui stesso come una metafora della vita. Ma Michelangelo non lo fece e c'è da presumere che svogliatamente si impegnasse ad una nuova scultura. Il cui esito non esaltante si vede attualmente nella Basilica della Minerva. Non si creda sia una bestemmia sostenere che, ictu oculi, la seconda versione sembra artisticamente alquanto malriuscita, presumibilmente per via del completamento dell'opera da parte dei suoi non geniali allievi. Infelicità della statua rafforzata dalla presenza del famoso perizoma "oltraggioso" (a contrario, rispetto all'intenzione censoria) in bella mostra nella Chiesa di S. Maria sopra Minerva (Fig.2). Perizoma imposto dalla cigliosa Chiesa controriformistica del '600. C'è da dire che quella venatura nera conferisce ancora più forza al significato redentivo dell'ineffabile espressione del Cristo. Venatura, lì incastonata nel marmo, a rappresentare così prosaicamente e veridicamente il dolore e l'imperfezione della vita. Ad ammirare nella sua corrusca perfezione, la prima versione del Cristo dei Giustiniani, c'è da restare davvero stupiti che Michelangelo abbandonasse la sua opera. Verosimilmente, questa versione del Cristo Portacroce che possiamo vedere noi contemporanei, è una versione modificata e rifinita prima della sua attribuzione a Michelangelo, avvenuta cinque secoli dopo, nel 2000, a conclusione delle sue varie peripezie da proprietario in proprietario, fino all'acquisizione da parte dei nobili Giustiniani. Forse, lo stupore si converte in straordinaria massima ammirazione, se si dà credito a quello che si racconta a proposito dell'intervento sulla statua condotto addirittura da Gian Lorenzo Bernini. Si tratterebbe di maestrìa su maestrìa, opera di genio su opera di genio. Ecco che allora si capisce perché il Cristo Portacroce dei Giustiniani (Fig. 1), del primo Michelangelo, benché difettato, appaia corrusco e mistico e rifulga rispetto a quello della Minerva (Fig. 2), serio e castigato. Non si può che restare in silenzio e raccolta meditazione, di fronte al sorriso del primo, etereo, ineffabile e inafferrabile. Ma detto questo con grande trasporto lirico, noi pessimisti [assoluti] non possiamo non pensare a cosa c'è sotto questo lirismo, a cosa ne direbbe Zapffe, caro maestro. "Con il quarto meccanismo di difesa, la sublimazione la modalità di funzionamento è la trasformazione piuttosto che la soppressione: con un talento creativo o un’audacia incrollabile, si può essere in grado di trasformare le stesse agonie della vita in esperienze piacevoli". È la parte dell'Ultimo Messia del filosofo norvegese, in cui viene definita la quarta e ultima barriera (dopo l'isolamento, l'ancoraggio e la distrazione) di cui l'uomo si avvale per proteggersi dalla visione terrificante della vita, in cui ci scaraventerebbe la coscienza senza il suo scudo protettivo. Quali mali, quali orrori ha schermato "il talento creativo e l'audacia incrollabile" di Michelangelo per dar vita ai suoi capolavori sublimi? Da quali mali, da quali orrori, ci proteggiamo noi umani che nel sublime artistico di Michelangelo ci identifichiamo e ci sublimiamo, appunto? La risposta non è difficile e chi guarda con occhi disincantati il brutale corso della vita, prima ancora di considerare il valore simbolico della venatura nera del primo Cristo di Michelangelo, sicuramente la conosce benissimo.
Fig. 2) Cristo Portacroce (seconda versione) presso la Basilica di S. Maria sopra Minerva a Roma. |
lunedì 3 febbraio 2025
L'Ultimo Messia *
L'uomo è un nulla autocosciente. Così dice un filosofo pessimista dell'ottocento che non è Schopenhauer, ma Julius Bahnsen. Che sia un nulla, l'uomo, tutti lo possono capire solo disperdendo l'occhio nell'Universo stellato e nelle sue abiotiche immensità. Che sia autocosciente, e soprattutto perché, lo spiega invece in modo convincente e persino in modo poeticamente struggente, Peter Wessel Zapffe, in questo aureo piccolo saggio. E lo fa - prima ancora che arrivassero le neuroscienze cognitive degli anni 90, già nel 1933, anno di pubblicazione. Zapffe, poeta, scrittore, alpinista e, per certi versi, bizzarro biofilosofo. Dunque, che cos'è la coscienza? Qual è la conseguenza della sua nascita? Ecco cosa dice nella traduzione di Michele Corioni, autore anche della postfazione: Una rottura nell'unità della vita, un paradosso biologico, una mostruosità, un'assurdità, un'ipertrofia del genere più catastrofico. La natura ha puntato troppo in alto, superandosi. Solo questa frase, amici, vale il prezzo del libro (alquanto piccolo) e quindi il mio endorsement per Zapffe è totale. Dunque, aggiunge Zapffe, un errore che ha portato l'uomo a cercare in tutti i modi di sopravvivere a questa superfetazione di consapevolezza che è la coscienza, adottando meccanismi di difesa per disinnescare, paradossalmente, da una parte, la fortuna di avere uno strumento delizia (in quanto, usandolo, unico come specie vivente è riuscito a dominare il suo ambiente); ma, dall'altra, anche croce (in quando al contempo lo ha costretto implacabilmente a vedere non senso, sofferenza, malattia e morte come limiti invalicabili del suo vivere). Quelle che sono le tecniche descritte nell'Ultimo Messia (ancoraggio, distrazione, isolamento, sublimazione) oggi, credo, gli psicologi le chiamerebbero meccanismi di coping utili a superare lo stress umano dell'avvilimento, della frustrazione e della depressione causate dalla vita cosciente, al soggetto stesso che la vive. Lettura quindi affascinante L'Ultimo Messia ma che in ogni caso può essere accompagnata - se posso permettermi di dare un suggerimento a chi vuole avvicinarsi concettualmente attrezzato al filosofo norvegese -, dal viatico interpretativo della lettura de La cospirazione contro la razza umana, il Saggiatore, di Thomas Ligotti - una specie di apologia che l'autore fa citando il filosofo a tutto spiano - e dal saggio di Sarah Dierna apparso sulla rivista Dialoghi Mediterranei, dedicato ad una lettura di Zapffe in chiave antinatalista: "Peter Wessel Zapffe. Il Profeta dell'Ultimo Messia". Il combinato disposto della loro duplice lettura è forse un piccolo modo per diventare più facilmente consapevoli di questo abominio della coscienza di cui parla Zapffe? Giudicate voi leggendo Ligotti e Dierna, dopo Zapffe (o forse prima?).
* Commento pubblicato il 14/12/2024 sulla pagina dedicata al libro di Zapffe sul sito Mondadori
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