Se si volesse scrivere il Manifesto del Pessimismo contemporaneo facendo riferimento al panorama attuale della filosofia, non si potrebbe prescindere dalle opere di filosofi come R. Brassier, Q. Meillassoux, G. Harman, E. Thacker, tanto per fare qualche nome. Nomi inquadrati solitamente, sia pure in modo un po' controverso, nella giovane - neanche una ventina d'anni - categoria filosofica del "Realismo speculativo". Che si tratti di "ontologia orientata agli oggetti", di critica al "correlazionismo" kantiano, di materialismo o di "Nihil Unbound", non si può negare che il senso del genere umano, inteso in questo quadro quale particella del tutto irrilevante dell'Universo, faccia parte di una delle versioni più radicali di pessimismo filosofico, sia pure variamente declinato con visioni e concetti scientifici, matematici o estetici. Non volendo e non potendo condurre personalmente una disamina accademico-filosofica su questa corrente di pensiero, devo dire che semplicemente muoverei, per l'approntamento del Manifesto, da due idee icastiche e concatenate. Una, sotto forma di domanda, l’altra, sotto forma di evidenza. Esse mi sembrano - si parva licet - la base prima del procedere pessimisticamente pensante, quindi adatte a fare da premesse epistemiche del possibile Manifesto. Innanzitutto, l’interrogativo che non può non essere posto ad ogni essere umano, come primo serio problema filosofico, se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta (Camus, Il mito di Sisifo). In secondo luogo, l'assunzione di Michelstaedter ne La persuasione e la Rettorica, basata sull’evidenza per cui la vita è ἄβιος βίος, ovvero “impossibile in sé stessa”. Quantunque col mio proprio sofferente vivere sia per primo consapevole di questa impossibilità, risponderei tuttavia al quesito affermando, da inconcusso pessimista, che bisogna risolversi innanzitutto nella decisione di non “levar la mano su di sé”. Direi quindi, nell'incipit del Manifesto, sotto l'egida di Cioran, che è opportuno arrestarsi nel momento immediatamente precedente l'atto fatale, rinunciando alla scelta conseguente all’evidenza dell'impossibilità suddetta. Il soggetto pessimista del Manifesto, specificherei, non è “non ancora” suicida solo perché provvisoriamente irresoluto, trovandosi magari privo di pressioni esistenziali particolarmente dolorose per farlo. Nel fermarsi, egli fa una scelta definitiva (oddio, questo forse non si può dire) del tutto meditata e consapevole. Perché? Tra le convinzioni del pessimista - ricordo a questo proposito che qualcuno, con buona ironia, definisce il pessimista come un "ottimista ben informato" - c'è quella di discredere l’annientamento assoluto del proprio Esserci (Dasein). Piuttosto che abbracciare un ignoto e forse doloroso approdo, è preferibile consegnarsi al malcerto, casuale e imprevedibile dipanarsi della vita. Lasciatemi dire che le due premesse epistemiche del Manifesto, sarebbero in linea con il primo aforisma di E.Thacker di Rassegnazione infinita. Si tratterebbe infatti di un tentativo di non vacillare, come ogni filosofia, tra l’assioma e il sospiro, e di allontanarsi accortamente dal baratro.
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