Carlo Michelstaedter (1887-1910), nell’incipit della prefazione a
La persuasione e la Rettorica (1910), dice: “Io lo so che parlo perché io parlo
e che non persuaderò nessuno; e questa è disonestà". Il filosofo
goriziano, palesemente, è troppo impietoso e severo con sé stesso. Sa che scriverà la sua
tesi per cercare di convincere almeno i suoi commissari d'esame, concludendola
un giorno prima di rivolgere la rivoltella su di sé. Accadrà poi che diventi uno
dei filosofi più importanti del ‘900 italiano. Non con la
disonestà ha a che fare l’affermazione di Michelstaedter, ma con la Retorica
(con una t) del linguaggio italiano. Retorica che annovera l'antifrasi come suo ordinario tropo. Ovvero, come da definizione del dizionario della lingua italiana: una parola,
sintagma o frase il cui significato risulta opposto a quello che si assume
normalmente. Quindi niente disonestà ma semplice mossa linguistica nell’uso
di una figura retorica, un tropo appunto. La mia, allora, una semplice nota
grammaticale? Se non fosse – mi preme dire – che l'uso di questo tropo ha che
fare, come figura retorica, con la questione filosofica della efficacia di
qualunque dottrina della Salvezza/Redenzione/ Liberazione/ Assoluzione dell’uomo
o, per dirla con Michelstaedter stesso, della "Persuasione". Il filosofo dice di sapere che non persuaderà
nessuno ma lo dice all’inizio di un parossistico sforzo (poi diventato nella
storia della filosofia italiana “epocale”), condotto pochi mesi prima di darsi
la morte. Uno sforzo di critica, decostruzione e discredito del modo d’essere
dell’uomo comune che occulta dolore e finitezza della vita con illusioni e
convenzioni sociali. “ἄβιος βίος”, dice, vita che non è vita e che chiama con termine platonico anche φιλοψυχία, attaccamento alienato e
conformistico alla vita. Come premessa destruens,
la Rettorica (con due t), di una dottrina costruens della Persuasione. Condizione
dell'uomo vero e autentico, quest’ultima, che nonostante la precarietà e
ostilità della vita trova, secondo il filosofo goriziano, una forma assoluta di
verità e salvezza interiore. Nell'uomo persuaso "ogni attimo è un secolo della vita degli altri, finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente". Questa dottrina della Persuasione, questo "consistere nell'ultimo presente", purtroppo, non persuade – lo dico senza ironia (Cacciari ne ha parlato come di "ou-topia indicibile della parola"). Così come
ogni altra dottrina che predichi una qualche irraggiungibile presunto stato assoluto o revulsione totale dell’essere dell’uomo comune,
a cominciare da quella buddhista. Dottrine subito smascherabili mediante quel
tropo “topico”, usato strumentalmente
ogni volta che dicono di negare ciò che vogliono invece affermare (nel
buddhismo zen si dice: Se incontri il
Buddha, uccidi il Buddha; poi il Buddha è lì vivo e onnipresente in ogni
stadio del reale cammino interiore di illuminazione). L’antifrasi dunque – o, se vogliamo guardar meglio, anche la preterizione: dire di non voler dire ma
poi dire lo stesso – come possibile indice di una sorta di “frode” filosofica da
parte delle dottrine mistiche, etiche, politiche o religiose. Le quali predicano di
non voler fare ciò che poi fanno. Che promettono, ad un uomo assetato di verità da millenni, ciò che non possono mantenere. Se questo è vero, come penso – ovvero
l’inconseguibilità di qualunque percorso di salvezza - cosa resta da fare per
non darsi al nichilismo più autodistruttivo? Solo, credo, la testimonianza filosofica
dell’insensatezza e della brutalità del vivere (e qui, in questa pars destruens si è in buona e onesta
compagnia del pensiero negativo). Poi,
resta anche da fare l’accorto smascheramento
dell’uso rettorico, oltre che retorico, del fraudolento tropo dell’antifrasi (e, se necessario, della preterizione). Michelstaedter, che amo come mio maestro di pensiero, mi
perdonerà se ho comincio da lui.
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