martedì 22 ottobre 2024

Topografia dell'insensato - Terzo quadro

Universo abiotico. L'Universo viene definito dagli addetti ai lavori come: "Il complesso di tutto lo spazio che contiene materia ed energia". Questo spazio, come si sa, ha a che fare con pianeti, stelle, spazio interstellare e galassie. Solo di queste ultime se ne contano centinaia di miliardi ovvero, in formula matematica, dieci alla undicesima. Quanto al suo tempo di esistenza gli scienziati calcolano all'incirca 14 miliardi di anni dal Big Bang. In questo quadro, l'esistenza di forme di vita sulla Terra (abiogenesi) dura da 4,4 miliardi di anni e, in esso, l'intervallo di esistenza dell'uomo originato dalla cosiddetta "Eva mitocondriale", prima madre di tutti gli umani, appare del tutto irrisorio: al massimo 200 mila anni. Non parliamo dell'Homo Sapiens la cui esistenza che è alla fine, per durata, non maggiore di quella di un battito di ciglia nell'immensità dei 14 miliardi di vita dell'Universo. Tutto questo ci racconta una unica storia difficile da digerire per l'uomo e la suo prosopopea cosmica: la caduta del biocentrismo, primato biologico del tutto usurpato in questo contesto cosmico, la pari inconsistenza dell'antropocentrismo e la fine di qualunque principio valido di autodeterminazione dell'umano. Un Tutto dunque indifferente all'essere umano. Anzi, apertamente ostile alla vita, come sottolinea Marco Lanterna, nel suo Peisithanatos (2021) richiamando i "pesi massimi del pessimismo" a maggiore considerazione della conseguenze di questa verità metafisica. "La vita vien fuori da brodetti, tiepide pozze, acquitrini primordiali: origini putride e graveolenti" e "L'orrore del Cosmo per la vita è fin troppo superiore a quello che esso nutre per il vuoto", dice. La Terra e l'uomo che "come una scabbia c'infuria sopra", non sono ben visti dall'assetto di perfezione abiotica del Cosmo e dunque l'unico miglioramento possibile per un uomo, "malvagio e immedicabile", è l'estinzione. Tanto poi alla fine arriva comunque la morte termica e il collasso entropico dell'Universo. Dunque, in conclusione, anche nelle cose dell'Universo, terza innodìa dell'insensato.

Topografia dell'insensato - Secondo quadro

Indeterminismo biologico. Darwinismo e ordinamento a-teleologico (non finalistico) della vita sono paradigmi e orientamenti scientificamente prevalenti. Non si da una direzione predefinita o un progetto nella selezione naturale. In natura, dichiara la scienza biologica, le mutazioni avvengono in modo casuale e la selezione naturale si basa sull'interazione tra le caratteristiche contingenti degli organismi e l'ambiente circostante. Quest'ultimo cambia anch'esso in continuazione. In altri termini, l'evoluzione non procede verso uno scopo finale predeterminato, ma si adatta di volta in volta a condizioni contingenti. Qui, prima ancora di ricorrere a Nietzsche, con icastica evidenza, vanno a schiantarsi le favole morali, metafisiche, religiose e mistiche che l'uomo si è raccontato per millenni sulla vita. Peter Wessel Zapffe, biofilosofo, pessimista e antinatalista, un pò spariglia questo paradigma di indeterminazione con l'idea - alquanto suggestiva - di "un errore della natura", "un tragico passo falso" che ha portato al sorgere della coscienza nell'uomo. Escrescenza di sensi, questa, di sentimenti, esperienze e valori che lo spinge ad una superfetazione di convinzioni sul suo sé, sulla sua tracotante superiorità nella natura rispetto agli altri ordini di esseri viventi e perfino sul senso del suo destino nell'universo. Sulfurea la metafora usata da Zapffe per descrivere la coscienza. Come dice la studiosa Sarah Dierna (2024) "[...] una spada dalla doppia lama molto affilata e senza impugnatura ma chi la usava [...] doveva afferrarla per la lama e rivoltare contro se stesso uno dei suoi fili [...] un’arma che tuttavia la rese non solo onnipotente sul mondo, ma egualmente pericolosa per se stessa." In questo senso, la nozione del tragico - nota la studiosa -, si avvicina a quella dell'assurdo di Camus, ma ne rimane distinta in quanto "mentre l’assurdo non è nel mondo e non è nell’io bensì nella co-occorrenza dell’uno e dell’altro, il tragico è biologicamente iscritto nell’io che abita il mondo, si manifesta dunque nella dinamica di co-occorrenza ma la causa motrice di tale sentimento appartiene alla natura umana". In attesa che le neuroscienze cognitive vengano a capo del "problema difficile della coscienza"(Hard Problem of Consciousness), la tragedia dell'uomo, è soprattutto qui. Nonostante tutti gli escapismi adattivi escogitati dal genere umano e che Zapffe descrive con precisione nell'Ultimo Messia (1933), nel solco di Pascal e di Freud. Difficile tuttavia non obiettare al filosofo norvegese che il "tragico passo falso" che la natura avrebbe fatto con la coscienza, contrasta con l'indeterminismo biologico afinalistico di cui dicevamo sopra, quasi proiettando implicitamente nella natura un disegno fatto di passi "corretti", da cui devierebbe il passo falso. Qui noi non vogliamo far torto alla lucidità adamantina della biofilosofia con cui Zapffe ha saputo dire: "Veniamo da un inconcepibile nulla. Stiamo per un po' in qualcosa che ci sembra parimenti inconcepibile, solo per svanire ancora in un inconcepibile nulla". E' chiaro che a questo "inconcepibile nulla", non può sfuggire il balletto di mutazione e contingenza dell'indeterminismo ateleologico della natura. Dunque, nelle cose della vita, seconda innodìa dell'insensato.

Topografia dell'insensato - Primo quadro

Orrore storico. Il "Libro nero" di Matthew White sulle cento peggiori atrocità della storia è del 2011. Troppo esiguo nelle sue neanche mille pagine, andrebbe già notevolmente aggiornato e incrementato con le carneficine dell'ulteriore compiersi nei 13 anni seguenti, della teratologia umana. Si potrebbe attingere al Libro nero del comunismo o a quello del Capitalismo o del Rinascimento e ad altri vari Libri neri, ma il quadro dell'orrore storico resterebbe in ogni caso parziale e incompleto. Il punto non è la scala di grandezza dei numeri, comunque terrificanti e praticamente inconcepibili per la sensibilità umana. Il punto è l'inimmaginabile efferatezza, la crudele multiformità, l'illimitata pervasività e spesso la totale impunità, con cui nella vicenda storica dell'umano i crimini vengono commessi. Adriana Cavarero (2007) ha proposto la categoria dell'"orrorismo", categoria che mira a spostare il baricentro dell'attenzione non su chi la violenza la perpetra, ma su chi la violenza la subisce: i vulnerabili e gli inermi. Bernard Bruneteau (Il secolo dei genocidi, 2005) e Marcello Floris (Il genocidio, 2021) riportano dovizie di definizioni sul tema dei genocidi, soprattutto negli ultimi decenni da parte delle organizzazioni internazionali. Che, d'altra parte, sono impotenti di fronte al perpetuarsi delle stesse atrocità, perpetrate, anche come veri e propri genocidi, senza soluzione di continuità con il presente millennio. Ma al di là di queste definizioni, che possono sembrare quasi irriguardose, vale il pessimismo di Wolfgang Sofsky che pensa alla malvagità e alla violenza dell'uomo come iscritte irredimibilmente nella natura ontologica dell'uomo. Nelle vicende storiche sembra l'unica teoria  convincente. Infatti, l'idea che questa iscrizione sia sempre stata in atto in tutte le epoche storiche, sembra alquanto difficile da smentire razionalmente. Così come il suo enunciato secondo cui: "L'affermazione di vivere in un'età di progresso dei costumi è indice di cecità storica e appartiene alla mitologia della civiltà moderna”. Dunque, nelle cose della Storia, prima innodìa dell'insensato.  

lunedì 14 ottobre 2024

Michelstaedter e l'antifrasi

 


Carlo Michelstaedter (1887-1910), nell’incipit della prefazione a La persuasione e la Rettorica (1910), dice: “Io lo so che parlo perché io parlo e che non persuaderò nessuno; e questa è disonestà". Il filosofo goriziano, palesemente, è troppo impietoso e severo con sé stesso. Sa che scriverà la sua tesi per cercare di convincere almeno i suoi commissari d'esame, concludendola un giorno prima di rivolgere la rivoltella su di sé. Accadrà poi che diventi uno dei filosofi più importanti del ‘900 italiano. Non con la disonestà ha a che fare l’affermazione di Michelstaedter, ma con la Retorica (con una t) del linguaggio italiano. Retorica che annovera l'antifrasi come suo ordinario tropo. Ovvero, come da definizione del dizionario della lingua italiana: una parola, sintagma o frase il cui significato risulta opposto a quello che si assume normalmente. Quindi niente disonestà ma semplice mossa linguistica nell’uso di una figura retorica, un tropo appunto. La mia, allora, una semplice nota grammaticale? Se non fosse – mi preme dire  – che l'uso di questo tropo ha che fare, come figura retorica, con la questione filosofica della efficacia di qualunque dottrina della Salvezza/Redenzione/ Liberazione/ Assoluzione dell’uomo o, per dirla con Michelstaedter stesso, della "Persuasione". Il filosofo dice di sapere che non persuaderà nessuno ma lo dice all’inizio di un parossistico sforzo (poi diventato nella storia della filosofia italiana “epocale”), condotto pochi mesi prima di darsi la morte. Uno sforzo di critica, decostruzione e discredito del modo d’essere dell’uomo comune che occulta dolore e finitezza della vita con illusioni e convenzioni sociali. “βιος βίος”, dice, vita che non è vita e che chiama con termine platonico anche φιλοψυχία, attaccamento alienato e conformistico alla vita. Come premessa destruens, la Rettorica (con due t), di una dottrina costruens della Persuasione. Condizione dell'uomo vero e autentico, quest’ultima, che nonostante la precarietà e ostilità della vita trova, secondo il filosofo goriziano, una forma assoluta di verità e salvezza interiore. Nell'uomo persuaso "ogni attimo è un secolo della vita degli altri, finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente"Questa dottrina della Persuasione, questo "consistere nell'ultimo presente", purtroppo, non persuade – lo dico senza ironia (Cacciari ne ha parlato come di "ou-topia indicibile della parola"). Così come ogni altra dottrina che predichi una qualche irraggiungibile presunto stato assolutorevulsione totale dell’essere dell’uomo comune, a cominciare da quella buddhista. Dottrine subito smascherabili mediante quel tropo “topico”, usato strumentalmente ogni volta che dicono di negare ciò che vogliono invece affermare (nel buddhismo zen si dice: Se incontri il Buddha, uccidi il Buddha; poi il Buddha è lì vivo e onnipresente in ogni stadio del reale cammino interiore di illuminazione). L’antifrasi dunque – o, se vogliamo guardar meglio, anche la preterizione: dire di non voler dire ma poi dire lo stesso –   come possibile indice di una sorta di “frode” filosofica da parte delle dottrine mistiche, etiche, politiche o religiose. Le quali predicano di non voler fare ciò che poi fanno. Che promettono, ad un uomo assetato di verità da millenni, ciò che non possono mantenere. Se questo è vero, come penso – ovvero l’inconseguibilità di qualunque percorso di salvezza - cosa resta da fare per non darsi al nichilismo più autodistruttivo? Solo, credo, la testimonianza filosofica dell’insensatezza e della brutalità del vivere (e qui, in questa pars destruens si è in buona e onesta compagnia del pensiero negativo). Poi, resta anche da fare l’accorto smascheramento dell’uso rettorico, oltre che retorico, del fraudolento tropo dell’antifrasi (e, se necessario, della preterizione). Michelstaedter, che amo come mio maestro di pensiero, mi perdonerà se ho comincio da lui.