martedì 29 luglio 2025

Il Sutra che prende alla giugulare


Gautama Śākyamuni, detto il Buddha (il Risvegliato), nato a Lumbini, nell'attuale Nepal meridionale, ha parlato non poco, tra il VI e il V sec. a.c. Conseguita l’illuminazione sotto l'albero del Bodhi (un fico sacro, presso Bodh Gaya, in India), ha infatti predicato per 45 anni nella valle del Gange, diffondendo i suoi insegnamenti volti alla liberazione umana dal dolore. Indubbiamente splendidi, seppur ostici e un po' criptici, alcuni discorsi raccolti nel Canone in lingua Pali, lingua letteraria precedente il Sanscrito. Fulgida è la predica nel Parco delle Gazzelle presso Benares, in cui enunciò le Quattro Nobili Verità alla base, fino ad oggi, di tutte le tradizioni del buddhismo storico. Ovvero: esiste il dolore (dukkha); la causa del dolore è la brama; è possibile estinguere il dolore; il cammino per l’estinzione del dolore è il Nobile Ottuplice Sentiero. Postulati che hanno rappresentato una vera rivoluzione filosofico-religiosa per l’imperante società ortodossa brahminica del tempo. Ma, fra gli innumerevoli discorsi del Buddha, il più mirabile e concettualmente spiazzante, soprattutto per il seguace della sua dottrina, è certamente il dialogo col monaco Subhūti del Sutra del Diamante (Vajracchedikā-prajñāpāramitā-sūtra), la cui traduzione completa è Sūtra del Diamante che recide l'illusione, appartenente alla serie dei sutra della Perfezione della Saggezza (peraltro, è il libro a stampa più antico del mondo, datato 868 d.C.). Con stile sconcertante, logica implacabile e incalzante scambio dialogico, è dedicato, tra l'altro, ad alcuni tra i più importanti concetti buddhisti come Vuoto (sunyata) e Attaccamento (upādāna). Esso rappresenta, al contempo, una serrata requisitoria contro il senso comune, soprattutto quello dei seguaci, alle cui menti il Buddha, chiede, tramite il suo interlocutore, Subhūti, di “non prendere dimora in nessuna cosa”. Un Sutra (sostantivo che genericamente indica un libro del Canone pali) che, di primo acchito, sembra sconclusionato, senza capo né coda, trapuntato da continue formule ripetitive, affermazioni, negazioni e doppie negazioni. Concettualmente, però, finisce per prendere alla giugulare chi lo ascolta, facendolo stramazzare nel cuore stesso delle sue convinzioni filosofico-dottrinarie. In questo senso, va letto il passo relativo al "pensiero non-sostenuto" proprio del conseguimento dello stato di perfezione spirituale del Bodhisattva (essere illuminato che ha come compito la liberazione di tutti gli altri esseri). Egli "dovrà produrre un pensiero non-sostenuto, vale a dire un pensiero che in nessun luogo sia sostenuto, un pensiero non sostenuto da vista, suoni, odori, gusto, oggetti-del-tatto o oggetti-della-mente [...] un pensiero che non sia sostenuto da non-vista, non-suoni, non-odori, non-gusto, non-oggetti-del-tatto né non-oggetti-della-mente".  La verità è che con ripetuti strattoni cognitivi (in questo caso, contro l'idea di io, essere, persona o anima vivente), fa a pezzi la logica aristotelica e conduce ad una stringente idea di Salvezza. Personalmente, non conosco testi che riescano a scardinare più radicalmente il Logos occidentale, il cui caposaldo, come sappiamo, è il principio aristotelico di non-contraddizione (questo empito antilogico e antidottrinario, verrà ripreso e declinato successivamente dalle scuole buddhiste più radicali del Chan cinese e dello Zen giapponese. Empito che è icasticamente espresso dalla paradossale ingiunzione rivolta dai maestri zen ai loro discepoli: Se incontrate il Buddha, uccidete il Buddha!). Alla fine del dialogo, poi, il Sutra ci consegna una folgorante e poetica idea dell'Impermanenza (anicca). Dice, in una sequenza da perderci il fiato, che tutti i fenomeni costituenti la realtà (dhamma) sono "come stelle, come le tenebre, come un miraggio, la fiamma di una lampada, la brina del mattino, come una bolla, un sogno, un lampo balenante, come una nuvola". Questo passo e tutto il Sutra del Diamante è di una forza poetico-concettuale senza pari. O forse no, forse paragonabile all’invettiva shakespeariana contro la vita nel Macbeth (Atto V, Scena V): ”Spegniti, spegniti, piccola candela. La vita è un’ombra che cammina, un povero commediante che si dimena per un'ora sulla scena e di cui poi non se ne sa più niente. È una storia narrata da un idiota, piena di strepiti e furore, che non significa nulla.”. Qui, irrisorio e quasi blasfemo, l’affondo del poeta è contro la vita. Lì, contro la logica e i dogmi della Dottrina. In entrambi i casi, come non essere folgorati dalla loro bellezza poetica, così come dalla loro temerarietà intellettuale, espressa nelle parole del Bardo di Avon, così come in quelle del Risvegliato di Lumbini?

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